Riflessioni sulla vita cristiana di Rosario LIVATINO
Riflessioni sulla vita cristiana.
L’esperienza di Rosario Livatino
Roma, 7 marzo 2025
Basilica di Santa Maria in Traspontina
Dagli scritti di Rosario Livatino
“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.
“Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato affare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio.
Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”
“Il peccato è ombra, e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta”
“Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano.”
S.T.D. Sub tutela Dei
Qui di seguito il testo della relazione della dott.ssa Daniela Bianchini dal sito: www.centrostudilivatino.it
La Quaresima è per i cristiani un tempo di conversione e riconciliazione, di maggiore ascolto della Parola di Dio e di preghiera più intensa. Di particolare aiuto sono anche i modelli costituiti dai Santi e dai Beati, le cui esperienze possono essere fonte di ispirazione e di sostegno spirituale. Fra queste vi è la storia del Beato Rosario Livatino, il primo magistrato proclamato Beato nella storia della Chiesa, barbaramente ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 [1].
- Il periodo di Quaresima: preghiera, penitenza e memoria
La Quaresima rappresenta per i cristiani un tempo propizio per la conversione. Nella Sacrosanctum Concilium (109), la costituzione sulla sacra liturgia frutto del Concilio Vaticano II, vi è l’invito − attraverso la preparazione al battesimo o la memoria del battesimo ricevuto e attraverso la penitenza − ad ascoltare con maggiore frequenza la Parola di Dio e a pregare più intensamente. Si tratta di un cammino comunitario, come ha ricordato in questi giorni Papa Francesco nel Messaggio “Camminiamo insieme nella speranza” in preparazione della Quaresima.
«Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna», si legge nel vangelo di Giovanni (12,25). In questo tempo deve dunque risuonare nei nostri cuori e nelle nostre menti l’invito ad abbandonare le effimere soddisfazioni mondane, a far morire l’uomo consumato dal peccato che è in ognuno di noi per farlo risorgere a nuova vita, ad innalzarci, ad elevare lo sguardo verso il cielo (Sal 121, 1-2: «alzo gli occhi verso i monti da dove mi verrà l’aiuto»).
È un invito a predisporre il corpo e la mente all’incontro con il Signore, come fece Zaccheo che, desideroso di vedere Gesù che passava, salì sul sicomoro e Gesù, vedendolo, lo chiamò e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua (Lc 19,5) … Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,9-10).
Anche noi possiamo fare come Zaccheo e il nostro sicomoro può essere la preghiera, la partecipazione all’eucaristia, la memoria di Santi e Beati, da prendere come modelli e invocare come intercessori nelle nostre preghiere.
Chi ha prodotto frutti cattivi, se si converte, può iniziare a produrre frutti buoni, grazie all’innesto di una parte di albero buono. Nessun incontro è casuale e Dio soccorre chi si è perso anche mettendo sul suo cammino persone che sanno produrre buoni frutti (Cfr. Mt 7,15-20; Lc 6, 43-45).
- Rosario Livatino: il primo magistrato proclamato Beato
Rosario Livatino nacque a Canicattì il 3 ottobre del 1952 ed entrò in magistratura nel 1978, a soli 26 anni. Malgrado la sua giovane età, in poco tempo divenne punto di riferimento per i suoi colleghi, in ragione della sua altissima preparazione e della sua non comune saggezza. Si occupò di complessi processi di mafia, collaborando anche con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; fu tra i primi a comprendere l’opportunità di colpire la mafia attraverso la confisca dei beni; fu tenace nel contrastare la criminalità organizzata e la corruzione.
Nel suo agire, Livatino fu sempre guidato dal rigoroso rispetto delle norme, delle procedure e delle persone, anche di quelle che si erano macchiate di atroci delitti: una volta, giunto sul luogo dell’omicidio di un boss mafioso per mano di altri mafiosi, rimproverò severamente un carabiniere che stava esultando per quella uccisione, ricordandogli che «di fronte alla morte, chi ha fede prega e chi non ha fede tace».
Fu dunque un magistrato modello, che non cercava riflettori o popolarità, desiderando piuttosto operare con giustizia e carità. Come scrisse nella relazione Fede e diritto[2], «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio».
Osservava ancora: «Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano».
Con questo spirito esercitava la funzione di magistrato, non passava notizie ai giornalisti e non amava far parlare di sé. Livatino, nel 1984, all’esito del maxi processo “Santa Barbara” che si concluse con la reclusione di tutti i capi cosca agrigentini grazie alle sue meticolose indagini, ai giornalisti che volevano fotografare i magistrati che avevano lavorato a quel processo rispose: «non siamo qui per parlare e far parlare di noi, siamo qui per rendere giustizia».
- Il martirio di Rosario Livatino
Rosario Livatino fu brutalmente ucciso in un agguato mafioso il 21 settembre 1990. I suoi sicari sono stati quattro ragazzi appena ventenni che non sapevano neppure chi fosse quell’uomo: sapevano soltanto che dovevano ucciderlo. Quell’uomo giovane che, uscito dall’auto e corso giù per una scarpata, prima di ricevere il colpo mortale, si rivolse ai suoi assassini affidando alle loro coscienze una domanda: «picciotti, cosa vi ho fatto?».
Una domanda che ha scosso profondamente uno di quei ragazzi, Gaetano Puzzangaro, condannato all’ergastolo per quell’omicidio, assieme ai suoi complici e ai mandanti; ha iniziato un percorso di conversione spirituale ed ha partecipato come testimone al processo di beatificazione; ha scritto una lettera indirizzata ai giovani esortandoli a non cedere alle lusinghe della mafia, a non commettere i suoi errori.
Rosario Livatino, riconosciuto martire in odium fidei, è stato proclamato Beato il 9 maggio 2021 (la memoria liturgica ricorre il 29 ottobre), in ricordo del discorso di Giovanni Paolo II pronunciato il 9 maggio 1993, quando parlando a braccio, con il dito puntato verso il cielo, ammonì duramente i mafiosi dicendo loro: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Il Pontefice aveva da poco conosciuto i genitori di Livatino e rimase particolarmente scosso dalla sua storia. Fu Giovanni Paolo II a parlare per primo di Livatino come “martire della giustizia e indirettamene della fede”.
Va senz’altro ricordata anche l’importante testimonianza di Pietro Nava, colui che è passato per caso sulla scena del crimine mentre si consumava l’omicidio di Livatino ed ebbe il coraggio di raccontare alle autorità cosa aveva visto, offrendo elementi essenziali per le indagini (di cui si è occupato anche Giovanni Falcone) e l’arresto dei colpevoli. Dopo l’arresto si venne a sapere che Livatino era stato ucciso perché ritenuto “pericoloso” dai boss mafiosi della zona, in quanto persona incorruttibile e profondamente religiosa.
Durante il processo di beatificazione sono state sentite molte persone: colleghi e personale amministrativo del Tribunale di Agrigento, che lo hanno ricordato come una persona sempre gentile e disponibile, come un magistrato preparato e rigoroso, diligente e riservato, talmente riservato che nella sua Canicattì non si sapeva nulla dell’importante lavoro di contrasto alla criminalità organizzata che stava portando avanti da anni con zelo e dedizione; ne erano ignari persino i suoi genitori.
Dal 1984 aveva maturato la consapevolezza di essere in pericolo, come emerge dagli appunti raccolti nelle sue sette agendine che sono state studiate durante il processo di beatificazione. Questo non gli ha impedito di proseguire la sua attività di magistrato, tuttavia, era forte preoccupazione per i suoi genitori, per il dolore che avrebbero potuto provare per la sua morte o per il pericolo che avrebbero potuto correre anche loro.
- La fede di Livatino
Nelle prime pagine delle sue agendine si trovano le lettere S.T.D., acronimo di Sub tutela Dei, una formula con cui Livatino ricordava a sé stesso l’esigenza di camminare sotto lo sguardo di Dio. Come si legge nella sua relazione Fede e diritto, «Il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta».
Emerge dunque la sua profonda fede, la sua capacità di riconoscersi – come tutti siamo chiamati a fare − bisognoso dell’aiuto di Dio. «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore», si legge nel Vangelo di Giovanni (12,26): seguire Gesù significa mettersi dietro di lui, riconoscerlo come guida, proprio come ha fatto Rosario Livatino, mirabile esempio di umiltà, intesa nella sua accezione più profonda, ossia come capacità di saper stare al proprio posto, di accettare i fatti della vita, anche se difficili da comprendere, perché anche dalle situazioni che ci possono sembrare assurde o ingiuste può venire la salvezza.
Pensiamo, ad esempio, quanto possa essere stato difficile per Rosario Livatino avere come vicino di casa un boss mafioso: lui che combatteva con tenacia la criminalità organizzata si è trovato a vivere nello stesso palazzo di una persona che, invece, di quella criminalità faceva parte e fondava la propria quotidiana esistenza sulla prevaricazione, sull’uso della forza, sulla violenza e sulla corruzione.
Non dobbiamo cadere nell’errore di crederci superiori a Dio, di sapere meglio di Dio cosa sia buono per la nostra vita o per la vita delle persone che amiamo. Ricordiamo piuttosto la risposta di Gesù a Pietro: «Vai dietro a me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23)
Sull’esempio di Rosario Livatino dobbiamo farci sale e luce, dobbiamo – ognuno nelle situazioni, nei rapporti e negli ambienti dove è stato posto dal Signore – contribuire a dare senso alla vita, a rendere visibile la grandezza di Dio e la dignità umana; dobbiamo portare la luce dove ci sono le tenebre, dobbiamo impegnarci per conservare la vita eterna (Lc 12,25).
Per fare questo siamo chiamati a scegliere, a decidere, ad esercitare il libero arbitrio e, come osservava Livatino, «scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare».
Dobbiamo scegliere se essere caldi o freddi, ossia ardere di amore per Dio o versare in uno stato di colpa grave: la cosa peggiore che possiamo fare, come si legge nel libro dell’Apocalisse (Ap. 3,15-17. 19-20), è non scegliere, permanere in uno stato di pigrizia spirituale, perché la conversione è più difficile se si parte da uno stato di tiepidezza, di torpore spirituale, che non da uno stato di peccato grave.
Anche Dante nella Divina Commedia, nel Terzo canto dell’Inferno, usa parole dure nei confronti degli ignavi, coloro che «visser sanza ’nfamia e sanza lodo» (v. 36), che «non hanno speranza di morte e la lor cieca vita è tanto bassa, che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte» (vv. 46-48), «sciaurati, che mai non fur vivi» (v. 64). Per Dante la loro colpa è talmente grave da non collocarli neppure nell’infermo perché gli altri dannati potrebbero provare compiacimento per essere puniti con la stessa pena inflitta a peccatori così spregevoli: «Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli» (vv. 40-42).
Dobbiamo dunque metterci in cammino, come ci ha ricordato anche Papa Francesco e come ricorda questo Giubileo il cui motto è “Pellegrini di speranza”; dobbiamo essere uniti, vigili, prudenti e lungimiranti, custodendo la nostra fede come hanno custodito l’olio le cinque vergini sagge della parabola narrata nel Vangelo di Matteo (cfr. Mt 25, 1-13): anche loro, come le cinque vergini stolte, si sono addormentate, ma ciò che le ha salvate è stata la loro lungimiranza, il loro stare attente a non far spegnere le lampade.
Siamo chiamati, nella quotidianità della nostra vita, a non limitarci ad un mero ascolto della parola di Dio ma a metterla in pratica, perché soltanto in questo modo possiamo fondare la nostra vita su basi solide, in grado di resistere alle intemperie della vita senza crollare (cfr. Mt 7, 21. 24-27).
Chi ha fede si riconosce non perché è immune dalle sofferenze o dalle difficoltà della vita ma perché – forte della speranza e della fiducia in Dio − sa affrontare quelle sofferenze e quelle difficoltà senza cadere nella disperazione.
Chi mette veramente in pratica la Parola di Dio non corrompe e non si lascia corrompere, non tradisce, non cerca la felicità nel potere o nel denaro, non chiude gli occhi di fronte alle ingiustizie, non commette atti di violenza o soprusi, non calunnia, non cerca il proprio vantaggio a danno del prossimo, non vive nell’illegalità.
Come ricordato da Livatino: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».
Livatino è stato un uomo, un fedele e un magistrato credibile, come conferma l’adesione di tanti magistrati, anche non credenti, alla raccolta delle firme per la sua elezione a Patrono dei magistrati.
Daniela Bianchini
[1] L’articolo riproduce il testo della relazione svolta all’incontro “Riflessioni sulla vita cristiana. L’esperienza di Rosario Livatino” che si è tenuto in data 7 marzo 2025 a Roma, presso la Basilica di Santa Maria in Traspontina.
[2] Si tratta della Conferenza tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì nel salone delle suore vocazioniste.